di Redazione Lavoratorio.it - Pubblicato il 15/12/2025

Due pensionati leggono una comunicazione Inps (repertorio) - Drazen Zigic
L’addio alla pensione minima non è una riforma annunciata né un intervento improvviso, ma un processo già scritto nelle regole del sistema previdenziale. Mentre il dibattito pubblico continua a concentrarsi su rivalutazioni e aumenti annuali, passa spesso in secondo piano un dato strutturale: nel tempo non esisterà più una soglia minima garantita per legge. Il rischio concreto è che una quota crescente di pensionati si ritrovi con assegni di poche centinaia di euro al mese.
Il tema viene affrontato raramente perché, almeno per ora, il numero di pensionati esclusi è ancora contenuto e perché l’effetto pieno di questo meccanismo si manifesterà solo nel medio-lungo periodo. Ma la direzione è già tracciata.
CHI NON HA DIRITTO ALLA PENSIONE MINIMA
A restare esclusi dall’integrazione al trattamento minimo sono i pensionati il cui assegno è calcolato interamente con il sistema contributivo, cioè coloro che hanno iniziato a versare contributi dopo il 31 dicembre 1996. La normativa prevede infatti che la pensione minima sia riconosciuta solo a chi può vantare almeno un contributo settimanale accreditato entro il 31 dicembre 1995, rientrando così nel sistema retributivo o misto.
Con il passare degli anni, la platea dei beneficiari è destinata a ridursi progressivamente, fino a scomparire del tutto. Non sarà necessaria alcuna riforma esplicita: sarà il semplice effetto del ricambio generazionale.
COS’È L’INTEGRAZIONE AL TRATTAMENTO MINIMO
L’integrazione al trattamento minimo è il meccanismo che consente di aumentare l’assegno pensionistico quando l’importo mensile risulta troppo basso, portandolo fino alla soglia minima fissata dalla legge. L’accesso a questa integrazione non è automatico, ma subordinato a precise condizioni.
Da un lato conta la situazione reddituale complessiva del pensionato, perché l’aiuto spetta solo entro determinati limiti di reddito, che possono includere anche quelli del coniuge. Dall’altro lato è determinante il profilo contributivo, poiché l’integrazione è riservata esclusivamente a chi ha versato almeno un contributo prima del 1996.
Nel 2025 l’importo della pensione minima è pari a 603,40 euro al mese. A questa soglia si affianca una rivalutazione straordinaria del 2,2%, destinata a ridursi all’1,3% nel 2026, a favore dei pensionati con assegni inferiori al minimo.
ADDIO AL TRATTAMENTO MINIMO: DA QUANDO
L’addio alla pensione minima non avverrà con una data simbolica né con un provvedimento dedicato. Sarà il risultato naturale dell’aumento delle pensioni liquidate interamente con il sistema contributivo, per le quali l’integrazione non è prevista.
Secondo le stime, intorno al 2040 la quasi totalità delle nuove pensioni sarà composta esclusivamente da contributi versati dopo il 1996. A quel punto non esisterà più una platea significativa di pensionati aventi diritto al trattamento minimo. In assenza di interventi correttivi, la pensione minima, così come la conosciamo oggi, è quindi destinata a scomparire.
PERCHÉ LA FINE DELLA PENSIONE MINIMA È UN PROBLEMA
La progressiva uscita di scena della pensione minima pone un problema strutturale perché il sistema contributivo, per sua natura, tende a produrre assegni più bassi rispetto al metodo retributivo o misto. L’importo della pensione dipende esclusivamente da quanto si è versato nel corso della vita lavorativa e dall’età di uscita, senza alcuna soglia di tutela garantita.
Le conseguenze sono particolarmente evidenti per chi ha avuto carriere discontinue, periodi di lavoro povero o lunghe interruzioni. In questi casi l’assegno pensionistico può risultare estremamente contenuto e non integrabile. È il caso, ad esempio, di chi accede alla pensione di vecchiaia contributiva a 71 anni con soli 5 anni di contributi, ritrovandosi con importi mensili di poche centinaia di euro.
PENSIONE MINIMA E INTERVENTO DEL GOVERNO
Il tema dell’estensione della pensione minima ai contributivi puri è tornato al centro del dibattito dopo la sentenza n. 94/2025 della Corte Costituzionale, che ha eliminato il divieto di integrazione al minimo per la pensione di invalidità calcolata interamente con il sistema contributivo. Pur trattandosi di un ambito specifico, la decisione mette in discussione uno dei principi cardine della riforma Dini.
La Consulta ha chiarito che l’integrazione al minimo serve a garantire mezzi adeguati alle esigenze di vita, come previsto dall’articolo 38 della Costituzione, e che una distinzione rigida tra contributivo e retributivo può risultare irragionevole quando l’assegno è troppo basso. Alla luce di questo orientamento, il governo sarà chiamato prima o poi a intervenire per evitare che il sistema previdenziale produca un numero crescente di pensionati formalmente tutelati, ma di fatto poveri.
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