di Redazione Lavoratorio.it - Pubblicato il 23/10/2025

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Nel mondo del lavoro capita spesso di chiedersi se due dipendenti che svolgono le stesse mansioni debbano ricevere lo stesso stipendio. Una recente sentenza della Corte di Cassazione, la n. 17008 del 2025, ha chiarito che non esiste alcun principio generale che imponga l’uguaglianza retributiva tra lavoratori con mansioni identiche, a meno che non vi siano elementi discriminatori vietati dalla legge.
IL CASO ESAMINATO DALLA CASSAZIONE
La vicenda nasce dal ricorso di un lavoratore che lamentava di essere pagato meno rispetto ai colleghi, pur svolgendo le stesse attività. L’uomo chiedeva al giudice un inquadramento superiore, il pagamento delle differenze retributive e il risarcimento per danno professionale e d’immagine.
Sia il tribunale che la corte d’appello avevano respinto la richiesta, rilevando che il dipendente non aveva dimostrato con precisione le mansioni svolte né le aveva confrontate con quelle previste per la qualifica superiore rivendicata. La Cassazione ha confermato queste decisioni, ricordando che, anche in presenza di mansioni identiche, non sussiste un diritto automatico alla parità di stipendio.
COSA STABILISCE LA SENTENZA
Secondo la Suprema Corte, la Costituzione garantisce il diritto a una retribuzione proporzionata e sufficiente (art. 36), ma ciò non implica che i datori di lavoro debbano riconoscere lo stesso salario a tutti i dipendenti che svolgono attività simili.
L’azienda, quindi, può modulare la retribuzione in base a diversi criteri, come:
Le differenze salariali restano legittime purché il compenso sia congruo e non vi siano discriminazioni fondate su sesso, età, razza, opinioni politiche o appartenenza sindacale.
QUANDO IL LAVORATORE PUÒ RICORRERE
Il dipendente che ritiene ingiusta la propria busta paga può agire in giudizio solo dimostrando che:
In questi casi, il giudice può ordinare la ricostruzione del rapporto di lavoro e il pagamento delle differenze dovute.
IL RUOLO DELLA DIRETTIVA EUROPEA
Il tema della parità salariale è affrontato anche dalla direttiva UE 2023/970, recepita in Italia nel 2025. Essa prevede che gli Stati membri garantiscano la parità di retribuzione tra uomini e donne e promuovano la trasparenza salariale nelle aziende.
Tuttavia, la normativa europea non impone stipendi uguali per tutti, ma solo in caso di differenze basate sul sesso o su altri motivi discriminatori. Le imprese devono rendere accessibili i dati sulle retribuzioni medie per categoria e affrontare eventuali squilibri ingiustificati, pena sanzioni e risarcimenti.
CHE COSA CAMBIA NEL CONCRETO
La Cassazione ha ribadito che, in assenza di discriminazioni, le aziende restano libere di stabilire compensi differenti anche per mansioni analoghe. Non esiste quindi un “diritto alla parità salariale” in senso assoluto: ciò che la legge garantisce è soltanto una retribuzione equa e proporzionata al lavoro svolto.
In pratica, due colleghi che svolgono compiti simili possono ricevere stipendi diversi se le differenze si basano su criteri oggettivi e legittimi, come la maggiore esperienza, l’anzianità o la responsabilità affidata.
La legge tutela dunque la correttezza e la congruità del salario, ma lascia ampio margine di discrezionalità al datore di lavoro, a condizione che non siano violati i principi di equità e non discriminazione.
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